(a cura di Paolo Colucci)
Vermiglio è l’ultimo film di Maura Delpero, vincitore quest'anno a Venezia e candidato ai prossimi Oscar. La regista ritorna nel suo paese d’origine tra i monti del Trentino, a due ore di macchina dal centro abitato più vicino, per girare la storia della sua famiglia ambientata intorno al 1943.
Da che mondo è mondo, la storia di una famiglia è sempre scritta con il sangue. Delpero si azzarda a scrivere la sua epopea familiare con il latte: quello della mucca che viene munta nella scena d’apertura, e che viene bollito e versato nelle dieci tazze dei figli del maestro canuto interpretato dall’eccellente Tommaso Ragno.
Il latte scorre copioso per tutta la prima parte del film, finché, quando iniziano i guai, comincia a scarseggiare per i gemelli concepiti dalla primogenita con il “bigamo” – la parola nuova che i pargoli imparano dal mattinale del paese che svergogna la povera sorella sedotta e abbandonata – il disertore siciliano che trova riparo in casa del maestro finché c’è la guerra, prima di tornarsene sulla sua isola lontana, dove crescono abbondanti le arance e si cacciano i leoni – almeno così dicono i bambini del paese.
La bravura di Delpero sta nel comporre e orchestrare un film fluido, lieve, che nasconde il lavoro di regia con un cast così composito, pieno di bambini scritturati alle sagre della valle, diretti con giochi e trucchi da pedagoga navigata, nel tentativo struggente di recuperare i visi e le parole dell’infanzia del padre. La fiaba di Vermiglio si chiude con la camera da letto vuota in cui una volta si dormiva tutti insieme. Non c’è la malinconia desolante dell’epica “sanguigna” o l’atmosfera amara e sognante di un Amarcord, ma tutta la tenerezza di un passato scritto per necessità e per nostra fortuna con il latte materno.